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Stefania
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PostSubject: Biografia_   Biografia_ Icon_minitimeWed Apr 23, 2008 1:24 pm

Figlio di un uomo seguace dell’Illuminismo troppo presto scomparso (il padre di Baudelaire aveva sessantadue anni alla sua nascita, sua madre ventisette), Baudelaire visse la sua giovinezza in pieno romanticismo. Infanzia infelice, tra la madre, che adorava ma alla quale non perdonò il nuovo matrimonio, ed il patrigno, il futuro generale Aupick, il quale non comprese gran che di questo giovane fragile e pieno di contraddizioni, di cui voleva determinare i percorsi d’istruzione.
Classicamente destinato “a fare diritto”(come Virgilio, come Flaubert e come altri ancora e niente più del diritto è stata la via maestra dell’arte), Baudelaire sceglie ben presto la bohème del Quartiere latino e medita un programma di vita che gli eviti a tutti i costi di diventare un "homme utile". A vent’anni, quando ha già avuto una relazione tempestosa con una prostituta ebrea (Sarah Louchette), e già le relazioni familiari si sono guastate, Baudelaire s’imbarca per l’Oriente: in realtà, si ferma alcune settimane all’Isola Mauritius, quindi alla Réunion, si riempie gli occhi di immagini e di colori sontuosi, scopre i poteri della sensualità e rientra in Francia fin dal febbraio 1842, dopo appena dieci mesi d’assenza. Raggiunta la maggiore età, riceve l’eredità del padre naturale e mena subito una vita che la famiglia considera abbastanza dissoluta (il generale Aupick vedeva di mal occhio la sua relazione con una mulatta, Jeanne Duval, non approvava le sue frequentazioni artistiche, in breve, le sue scelte di consapevole marginale) imponendogli un giudice tutelare, al fine di privarlo del godimento dei beni. Queste vicissitudini intime e familiari faranno di Baudelaire un disadattato a vita: daranno forma a tutte le sofferenze del poeta, di cui lo straziante epistolario con la madre resta un'esulcerata testimonianza.

La traversata dell’Inferno
Un’esistenza difficile ha inizio, segnata spesso dalla disperazione più nera (tentativo di suicidio nel 1845), dall’indigenza - si dà alla critica d’arte, per mantenersi -, ben presto anche dalla malattia (la sifilide) e dal lavoro poetico che lo sfianca e che lo induce a compararsi a un Sisifo condannato a rotolare il suo masso. Gli anni 1845 -1848 sono quelli in cui Baudelaire compone la maggior parte de I fiori del male, il suo capolavoro. Scopre in questo periodo Edgar Allan Poe, che ammira e che tradurrà in parte, si lega a Marie Daubrun (la douce femme dagli occhi verdi de I fiori del male), partecipa ai moti rivoluzionari del 1848, per ragioni private più che politico-ideologiche (Baudelaire era un borghese con pose aristocratiche, ammiratore del reazionario de Maistre non certo un rivoluzionario democratico). In questa circostanza preso da una “fièvre rouge” verso l’odiato patrigno pare che venga colto a pronunciare la frase «Fuciliamo il generale Aupick!», che in quel momento si trova a capo delle truppe repressive. Ma gli esiti della rivoluzione lo deludono, come in seguito il colpo di Stato del 2 dicembre 1851 ( la presa del potere di Napoleone il Piccolo, in seguito Napoleone III).

Il poeta maledetto
Prodigiosamente incline al dolore e alla solitudine, collerico ed impulsivo, completa il proprio processo di autodistruzione col vino, l’hashish, che hanno come effetto diretto il rafforzamento della distanza dal conformismo borghese di cui ha orrore.
Il legame torbido e tempestoso con Jeanne continua, inframezzato da altri amori (per la signora Sabatier, in particolare). Pubblica, nel 1857, I fiori del male. Il libro subisce ben presto un processo, seguito da condanna, per “immoralità” (nello stesso anno Flaubert è processato per Madame Bovary, venendo assolto, anche per le sue aderenze borghesi ed istituzionali, che mancarono al povero Baudelaire) e molte poesie giudicate particolarmente scandalose vengono espunte dalla censura.

Quell’anno stesso muore il generale Aupick e Baudelaire si riavvicina alla madre, verso cui finalmente può indirizzare la sua struggente adorazione di bambino refoulé e verso la quale è pronto a cadere ai piedi come anche, un attimo dopo, a inveire. Pubblica nel 1860 I paradisi artificiali (celebrazione delle droghe che consentono di uscire fuori di sé), prosegue il suo lavoro di critica d’arte lucida ed audace difendendo Richard Wagner, che nessuno in quel momento comprende, l’Olympia
di Manet, quadro dinanzi al quale la borghesia traccheggia, e l’arte delicata di Constantin Guys, pittore della vita moderna, suo speculare confratello artistico.
Mentre è intento a lavori frammentari e diaristici - gli autobiografici
Il mio cuore messo a nudo e Razzi -, pubblica, nel 1862, alcuni poemi
in prosa sotto il titolo di Spleen di Parigi, ed è aggredito sempre più
dagli effetti della sifilide. Dopo un soggiorno di due anni in Belgio (pretesto per un pamphlet atroce: Povero Belgio), è colpito da
emiplegia e si spegne a Parigi il 31 agosto 1867, a quarantasei anni.


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